Dopo il volume del presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime Paolo Bolognesi, scritto con il giornalista Rai Roberto Scardova, arriva in libreria la preannunciata risposta dell’onorevole Enzo Raisi, da sempre uno dei più acerrimi avversari della verità giudiziaria sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 (per la quale sono stati condannati con sentenza definitiva i tre componenti dei Nar, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini).
Questo libro è stato preceduto da un forte battage pubblicitario con ripetuti annunci relativi alla pubblicazione al suo interno di “straordinari” documenti inediti che avrebbero dimostrato la assoluta giustezza di una delle più note piste alternative a quella sancita dal giudicato penale, ossia la matrice palestinese della strage.
La lettura del libro ridimensiona queste aspettative.
Come noto, secondo i sostenitori della pista palestinese, la strage di Bologna sarebbe stata la vendetta del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina (Fplp) per l’arresto, avvenuto nel novembre 1979, di uno dei suoi massimi dirigenti in Italia, Abu Anza Saleh, e del relativo sequestro di due lanciamissili di proprietà dello stesso Fplp. E il fatto che il 2 agosto 1980, a Bologna, sia stata accertata la presenza di un tale Thomas Kram, all’epoca militante nella organizzazione della estrema sinistra tedesca Cellule Rivoluzionarie (RZ), dimostrerebbe in maniera inequivocabile che la mano che colpì nel capoluogo felsineo non fu fascista. Thomas Kram, insomma, sarebbe il responsabile materiale del più grave attentato terroristico avvenuto in Europa dal 1945 in poi.
A questo scenario (di cui si discute ormai dal 2005) Raisi non aggiunge nulla di nuovo, limitandosi per lunghi tratti del libro a ribadirne la validità.
Ora, se a una prima e superficiale lettura, la teoria di una pista palestinese può apparire suggestiva e perfino convincente (spesso anche per il modo con il quale viene mediaticamente presentata) una analisi più attenta ne dimostra la assoluta fragilità.
Thomas Kram il 2 agosto 1980 era a Bologna. Questo lo sappiamo con certezza, perché il giorno precedente venne identificato alla frontiera di Chiasso mentre entrava regolarmente sul territorio italiano e perché la sera del 1 agosto si registrò col proprio nome e cognome in un albergo bolognese. Ma si può allora razionalmente credere che un soggetto che il 1 agosto 1980 viene controllato alla frontiera e che la sera si registra col proprio nome in un albergo di Bologna, il giorno dopo vada a mettere, volontariamente, una bomba nella stazione della stessa città? Assurdo; mancava solo un annuncio sul Resto del Carlino….
E spiegare (come fanno Raisi e i sostenitori della pista palestinese) una simile illogicità col fatto che era “tipico” degli uomini delle RZ non agire in clandestinità, ma usare i propri documenti e che quindi proprio l’essersi presentato in hotel col suo vero nome dimostra che Kram, quel 2 agosto, era certamente coinvolto in qualcosa di losco, risulta non solo risibile, ma perfino grottesco. Proviamo, infatti, a ipotizzare in astratto che quel giorno Kram avesse usato documenti falsi; è evidente che agli occhi di chi, come Raisi, è a priori convinto della sua colpevolezza un simile atteggiamento sarebbe apparso ugualmente (se non di più) ambiguo. Insomma, qualsiasi cosa Kram avesse fatto in quell’inizio agosto 1980, comunque la si sarebbe associata alla strage.
E qui emerge plasticamente la scarsa attitudine alla ricerca storica dei sostenitori della pista palestinese. I quali partono sistematicamente dalle conclusioni (ovvero che “sono stati i palestinesi”) per poi cercare le prove che danno loro ragione. Col risultato che, ritenendo a priori giusta la loro tesi di partenza, finiscono per sovradimensionare questioni che sembrano avvalorarla, sottovalutandone le numerose incongruenze.
D’altronde; ma se (come Raisi e co. hanno ripetutamente scritto in tutti questi anni), la strage di Bologna è stata la vendetta palestinese per l’arresto di Saleh e il sequestro dei lanciamissili avvenuto a Ortona a fine 1979, perché Saleh ottenne la libertà provvisoria solo nell’agosto 1981? (per inciso quando a capo del governo c’era Giovanni Spadolini, il premier più filo-israeliano del dopoguerra).
Ma come? Ma se proprio la questione Saleh era una delle ragioni (se non la ragione principale) che stava alla base della atroce vendetta del Fplp del 2 agosto 1980, perché in quell’intero anno successivo alla strage (mentre Saleh rimane in carcere) di “vendette” del Fplp contro l’Italia non ve ne sono altre, dato che la bomba di Bologna, evidentemente, non era servita a niente?
Per non dire poi di quanto possa essere assurdo anche il solo ipotizzare che nell’agosto 1980, a meno di due mesi dal Consiglio Europeo del 12/13 giugno 1980, svoltosi proprio in Italia (a Venezia) e dove per la prima volta (in gran parte per volontà italiana) si riconobbe il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, gli stessi palestinesi possano aver volontariamente fatto saltare in aria una stazione ferroviaria italiana massacrando decine di civili.
Quanto alle minacce del Fplp per l’arresto di Saleh del novembre 1979 (alle quali i teorici della pista palestinese attribuiscono una importanza apicale) se prendiamo i documenti dell’estrema destra dell’epoca, minacce di azioni terroristiche (proprio contro treni e stazioni) ne troviamo ben peggiori. Un esempio su tutti (ragioni di spazio impediscono di inserirne altri) è il documento (intitolato “Da Tuti a Mario Guido Naldi”) che fu ritrovato in una cabina telefonica proprio a Bologna in via Irnerio a fine agosto 1980. Nel testo (e la sua riconducibilità a ambienti neofascisti è fuori discussione. Una copia fu ritrovata perfino nella cella del fascista toscano Mario Tuti) si auspicavano in modo inequivocabile azioni di terrorismo indiscriminato atte a seminare il panico tra la folla. Usando lo stesso metro di valutazione dei sostenitori della pista palestinese, se fossimo, a prescindere, convinti della matrice fascista della strage di Bologna, un documento del genere lo interpreteremmo come una conferma inoppugnabile della giustezza della nostra tesi.
Beninteso, qualunque sentenza, in sede di discussione storica, può essere messa in discussione, ma se si critica il fatto che il processo di Bologna contro i tre Nar, poi condannati con sentenza definitiva e passata in giudicato, è stato indiziario, non si faranno mai passi avanti se, con indizi più labili se non del tutto inesistenti, si avallano fumose e indimostrate piste internazionali.
E d’altronde è lo stesso Raisi, nella parte finale del suo libro, a dimostrare che lui per primo non crede fino in fondo alla tesi della vendetta palestinese (di cui pure parla a lungo). Infatti, dopo decine di pagine spese per spiegare che a Bologna ci fu una ritorsione del Fplp, nell’ultimo capitolo che fa l’onorevole? Sostiene che “forse”, quel 2 agosto 1980, a Bologna potrebbe essere anche accaduto un “semplice” incidente. E qui tira in ballo una delle povere vittime della strage, il giovane Mauro Di Vittorio, al quale attribuisce una possibile responsabilità nell’aver trasportato un carico di esplosivo che poi, forse accidentalmente, saltò in aria. Sorvolando su quanto possa essere di cattivo gusto (senza alcuna prova, ma solo sulla base di ipotesi), attribuire la responsabilità di una simile strage a una delle vittime di quell’attentato, ci limitiamo a segnalare che, tirando fuori una tale teoria, in un colpo solo Raisi fa piazza pulita di tutto il dibattito sulla pista palestinese degli ultimi 8 anni (nonché di tutta la prima parte del suo libro). Perché è evidente che se si trattò di un incidente, allora non ci fu nessuna vendetta, né alcun rilievo in questa vicenda ebbero la questione Saleh e gli arresti di Ortona del novembre 1979. Le due teorie, evidentemente, non possono stare insieme e produce perciò un involontario effetto comico leggere nel libro di Raisi decine di pagine in cui si sostiene la giustezza della tesi n. 1 (vendetta palestinese) e successivamente altre pagine in cui si dà per possibile la tesi n.2 (quella dell’incidente che coinvolse il povero Di Vittorio).
L’onorevole Raisi nella introduzione al libro tiene a sottolineare che esso è il frutto di 15 anni di lavoro e di ricerche. Ecco, a noi questa pare un’aggravante. Ci auguriamo soltanto che prima o poi qualcuno porga doverose scuse alla famiglia del povero Mauro Di Vittorio.