“Bisogna creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possono
usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, della intimidazione,
della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto,
del sabotaggio, del terrorismo”.
Queste parole sono tratte da una relazione riservata (rimasta per decenni coperta da segreto e resa nota nell’ambito dell’ultimo processo sulla strage di Piazza della Loggia) che il 12 settembre 1963 il colonnello Renzo Rocca, responsabile del cosiddetto Ufficio Rei del Sifar (il Servizio segreto militare, all’epoca guidato dal generale Egidio Viggiani) inviò all’allora capo del reparto D (controspionaggio) del Servizio, generale Giovanni Allavena (il cui nome comparve nelle liste della P2) per riassumergli quelli che, a suo dire, erano i modi migliori per condurre: “una efficiente, seria e globale azione anticomunista in Italia”. Una “azione” che, si legge, non doveva essere passiva, ma “offensiva e aggressiva” e che andava attuata “con tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti”, perché contro il comunismo “la difesa non basta” e chi si limita a difendersi “è già sconfitto”. Per fermare l’avanzata della sinistra era perciò necessario utilizzare persone e organizzazioni che conoscevano bene i principi “della guerra psicologica, della guerra non ortodossa, della lotta clandestina, delle tattiche di disturbo (…) della tecnica della provocazione (…)”[1].
Quello che presentiamo è un documento di grande rilevanza storica, che ci riporta indietro di cinquanta anni, alle origini della strategia della tensione e che dimostra in modo inequivocabile che per un preciso settore dei servizi segreti italiani era legittimo ricorrere anche al terrorismo e alla provocazione politica se questo serviva a fermare l’opposizione di sinistra.
Al centro di tutto l’enigmatica figura del colonnello Renzo Rocca, responsabile della branca dei servizi segreti (l’Ufficio Rei) che ufficialmente avrebbe dovuto occuparsi di controspionaggio industriale e del controllo della esportazione di armamenti ma che, evidentemente, aveva compiti ben più ampi e illegali. Ancora oggi, peraltro, restano oscure le cause delle morte del colonnello, ufficialmente avvenuta per suicidio il 27 giugno 1968, pochi giorni prima di essere chiamato a deporre davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul Piano Solo (come era stato denominato il tentativo di colpo di stato che, secondo quanto denunciarono Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi sull’Espresso del 10 maggio 1967, sarebbe stato organizzato dal generale dei carabinieri, ed ex capo del Sifar, Giovanni De Lorenzo nell’estate 1964).
All’epoca, fu proprio davanti a quella commissione d’inchiesta che Lino Jannuzzi accusò apertamente Rocca di essere stato il responsabile della organizzazione di formazioni paramilitari clandestine da utilizzare a fini di provocazione. Nel maggio 1968, poi, sulla rivista l’Astrolabio Ferruccio Parri scrisse che Rocca aveva arruolato squadre di provocatori da mandare in piazza durante manifestazioni o scioperi organizzati dalla sinistra al fine di farli degenerare. Accuse a Rocca di essere stato coinvolto nella elaborazione di piani anticomunisti finanziati dai settori più conservatori del mondo industriale erano contenute anche nel volume di Ruggero Zangrandi Inchiesta sul Sifar, pubblicato nel maggio 1970. Nel corso degli anni queste affermazioni sono state più volte liquidate come dietrologie senza prove, ma esse trovano oggi una incontrovertibile conferma documentale. Parri, in particolare, aveva sostenuto che i provocatori assoldati da Rocca erano stati tra i responsabili dei gravi incidenti avvenuti a Roma in Piazza Santi Apostoli durante lo sciopero dei lavoratori edili svoltosi il 9 ottobre 1963. Il fatto che appena un mese prima di quello sciopero, come si è visto, Rocca auspicasse proprio la creazione di gruppi di “attivisti” da utilizzare contro la sinistra dimostra quanto esatta fosse l’intuizione dell’ex comandante partigiano.
D’altronde, già a inizio novanta, quando vennero resi noti i verbali (per anni coperti da segreto) delle deposizioni rese davanti alla Commissione di inchiesta Beolchini (istituita a fine anni sessanta, prima di quella sul Piano Solo, col compito di fare luce sulle attività di spionaggio illegale poste in essere dal Sifar di De Lorenzo) si apprese che diversi testimoni avevano sostenuto che l’Ufficio Rei sotto la gestione Rocca non si era occupato solo di controspionaggio industriale. In particolare, il generale dei carabinieri Cosimo Zinza, in servizio al Rei dal 1958 al 1960, aveva affermato che quell’Ufficio: “Si occupava delle attività più disparate e più delicate e che esulavano molte volte dai compiti specifici spesso assegnati. Il colonnello Rocca era introdotto in tutti gli ambienti e la sua attività era la più imprevedibile in quanto gli venivano affidati degli incarichi particolarmente delicati”. Di più il generale Zinza non disse, né gli venne chiesto, ma oggi siamo finalmente in grado di conoscere quali erano questi incarichi “particolarmente delicati” affidati a Rocca.
Tornando dunque alla relazione che il colonnello scrisse nel settembre 1963, in primo luogo egli si preoccupava di organizzare un nuovo tipo di propaganda anticomunista, visto che quella portata avanti fino ad allora dai vari organi di stampa di centro o di destra era talmente paludata e contorta da risultare perfino dannosa. La propaganda invece doveva essere: “continua, totale, pesante, massiccia, elementare (…) e senza riguardi per nessuno” e ovviamente non doveva limitarsi alla sola stampa, ma, attraverso messaggi semplici e elementari, utilizzare radio, televisioni, riunioni, raduni, convegni, fino ad arrivare alle fabbriche, ai mercati rionali o addirittura a domicilio. Gli italiani, però, “leggono poco” e la propaganda, sosteneva il colonnello, anche se ben condotta, da sola non poteva bastare. Per questo ad essa dovevano necessariamente essere affiancate anche delle attività “esecutive ed operative”. Ed era a questo punto che Rocca affermava che, per fermare la sinistra, bisognava “creare” dei gruppi di attivisti capaci di utilizzare qualsiasi mezzo, anche il sabotaggio, l’intimidazione, la minaccia, il ricatto e il terrorismo. Si tratta di un passo che nemmeno richiederebbe commento, tanto è chiaro nel prefigurare i futuri scenari della strategia della tensione.
“Non bisogna dare tregua al comunismo” continuava il colonnello “bisogna aggredirlo in tutti i campi delle sue attività con tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti (…). Occorre rendere difficile la vita alle organizzazioni comuniste. Controlli fiscali, tasse, revoche di concessioni, tattiche dello scoraggiamento, dell’insabbiamento, del far perdere tempo”. Non solo; tutte quelle iniziative popolari che il comunismo utilizzava come mezzo di penetrazione tra il popolo (per esempio sale cinematografiche, sale da ballo, circoli ricreativi, associazioni culturali) dovevano essere: “isolate, boicottate, danneggiate”.
Se la lotta al comunismo fino ad allora era fallita, insisteva, era anche colpa del fatto che per troppo tempo ci si era affidati a persone: “assolutamente incompetenti che hanno operato con criteri errati e metodi da dilettanti”. Servivano invece uomini esperti nei principi della guerra psicologica, non ortodossa e clandestina, l’unica che avrebbe potuto portare a dei risultati concreti. Per questo Rocca proponeva di creare un comitato segreto “ristrettissimo” composto da persone attentamente selezionate cui affidare “la suprema direzione delle iniziative anti Pci”. Tale comitato, secondo lo schema operativo del colonnello, avrebbe dovuto avere voce in capitolo sulle operazioni anticomuniste e sul loro finanziamento, sollecitando gli interventi necessari in sede politica, governativa e economica. Di fatto, agendo come un vero e proprio governo ombra.
Nella lotta al comunismo, inoltre, tutti dovevano essere coinvolti, dai parroci, alle organizzazioni religiose, sindacali, di stampa, universitarie, fino ai gruppi di azione di centro e di destra. Rocca faceva poi un non del tutto chiaro riferimento a attività e organizzazioni anticomuniste già attive e che avrebbero fatto capo a “noti uomini politici”. Tra di essi citava l’ex senatore del Pci Eugenio Reale (uscito dal partito nel 1956 dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria), il repubblicano Randolfo Pacciardi, il socialdemocratico Alfredo Crocco e i democristiani Mario Scelba, Guido Gonella e Giulio Andreotti. Non sappiamo quali fossero queste “attività e organizzazioni anticomuniste”, ma un simile riferimento pone la questione di quello che era il grado di conoscenza dei piani del colonnello Rocca da parte della classe politica di governo dell’epoca. In particolare da parte del ministro della Difesa Giulio Andreotti, al cui dicastero facevano capo i Servizi segreti militari. E’ credibile che i progetti eversivi del colonnello gli fossero ignoti? Anche in questo caso non siamo in grado di dare una risposta certa, ma davanti a un documento del genere, quand’anche non vi sia stata una responsabilità diretta del titolare del ministero della Difesa (in effetti non dimostrata), è difficile sfuggire a una sua responsabilità politica. Perché come ha scritto l’ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino ci sono delle circostanze nelle quali un politico è responsabile anche di ciò che non sa, se aveva il dovere di saperlo; anche di ciò che non voleva accadesse, se aveva il dovere di impedirlo.
Ma più di ogni altra parola conta a questo punto leggere la relazione del colonnello Rocca che qui presentiamo in versione integrale e il cui originale, come detto, fa parte degli atti dell’ultimo processo sulla strage bresciana di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (atti che sono oggi consultabili anche in forma digitale grazie all’encomiabile lavoro svolto dalla associazione Casa della Memoria di Brescia guidata da Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari dei caduti di Piazza della Loggia). Solo un’ultima precisazione; per quanto possa apparire sconcertante sarebbe tuttavia un errore ritenere che il contenuto di questo documento costituisca una “rivelazione clamorosa”. Esso fornisce semmai una ulteriore e inequivocabile conferma di quello che numerose ricerche, testimonianze e indagini giudiziarie hanno già dimostrato. Ovvero che se nei primi anni sessanta a livello politico iniziò un avvicinamento (pur fra mille difficoltà) fra Dc e Psi che sfociò nel primo governo organico di centrosinistra del dicembre 1963 (con Aldo Moro presidente del consiglio e Pietro Nenni suo vice), a livello sotterraneo si assistette a una sorta di opposta convergenza che vide una progressiva osmosi tra spezzoni dell’anticomunismo conservatore e spezzoni dell’anticomunismo fascista. I moti di piazza del luglio 1960 e la conseguente caduta del governo di Fernando Tambroni, appoggiato dal Msi, erano stati uno choc per larga parte degli apparati dello Stato e fu a partire da quel 1960 che settori dei servizi segreti o del mondo militare iniziarono a muoversi in modo sempre più autonomo, cercando punti di riferimento nella estrema destra (finita ai margini del gioco politico dopo la caduta di Tambroni), in quei settori della Dc contrari all’accordo col Psi o in quelle aree industriali che vedevano l’apertura a sinistra come una sciagura economica. Ed è in questo preciso contesto storico (qui necessariamente sintetizzato) che va calato il documento del colonnello Renzo Rocca (redatto due mesi prima della nascita del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro) che, appunto, non fornisce rivelazioni sensazionali ma mette in luce una volta di più quale fu il retroterra di quella tragica stagione che è passata alla storia col nome di “strategia della tensione”.
(a cura di Giacomo Pacini)
[1] Il documento è contenuto all’interno del fascicolo n. 1962-2-21-32 intestato: “Aspetti dell’azione anticomunista in Italia e suggerimenti per attuare una politica anticomunista”.