remove_action('wp_head', 'wp_generator'); Grossetocontemporanea Pensieri al futuro. Relazione di Luciana Rocchi

Pensieri al futuro. Relazione di Luciana Rocchi

isgrec

Convegno Pensieri al futuro

Grosseto, Palazzo della Provincia, sala Pegaso

9 giugno 2014

 

 Relazione della Direttrice dell’ISGREC

Nell’invito a ragionare di futuro rivolto a persone di cultura e istituzioni si è voluta  dichiarare esplicitamente la doppia dimensione – locale e globale – di quelle che sono le domande da cui scaturisce. La prima è il piccolo mondo della vita di un Istituto, che ha celebrato da poco i suoi vent’anni e gode di buona salute, ma ha un futuro estremamente precario, sempre più incerto. L’altra riguarda le sorti della cultura in Italia, inseparabili da un quadro europeo, che le recenti elezioni hanno messo in primo piano, in tutto il  loro significato e con tutte le contraddizioni implicite nella parzialità del sistema – Europa. Sul quadro generale della cultura italiana, di recente si sono aggiunte alcune valutazioni grazie alla fortunata coincidenza della pubblicazione di alcuni dati. Si tratta delle conclusioni dell’analisi condotta dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica della Presidenza del Consiglio sulle spese per la cultura nel periodo 2000-2011. E’ stata presentata a Roma nelle ultime settimane e ne ha scritto in un ampio articolo su “La Repubblica” Salvatore Settis. Fra i ventisette paesi dell’Unione, l’Italia occupa l’ultimo posto per la spesa in cultura, scesa dallo 0,9% dell’anno 2009 allo 0.6 del 2011. I dati sulle regioni non sono omogenei, con un decremento maggiore al sud, più o meno in coerenza con le ordinarie sperequazioni radicate nella storia del paese. Colpisce il confronto con altri Stati del continente. La Grecia, il malato più grave d’Europa, ha disinvestito in cultura nel decennio considerato del 14,3 %, meno della metà dell’Italia. Scorrendo altri dati, si apprende che le spese delle famiglie in quest’ambito sono al di sotto della media europea, ma anche che è agli ultimi posti della classifica il livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali. Insomma, questa ricerca rivela una contraddizione stridente con le dichiarazioni “riparatrici” sull’importanza strategica di cultura e beni culturali, divenute concetto universale sulla bocca di politici e amministratori rispetto alla bestemmia pronunciata da un ministro della Repubblica anni fa – “con la cultura non si mangia” – che era di là da ogni buon senso, pensando alle potenziali risorse nazionali. Come commenta Settis, la cultura non può essere un “lusso per tempi felici”. L’abitudine ad archiviare tutto quel che si ritiene possa tornare utile, normale in un luogo che privilegia i beni culturali intesi come archivi, ci consegna molto opportunamente una lettera al quotidiano “Il Foglio” del ministro della cultura dell’epoca Sandro Bondi, per l’appunto datata 8 ottobre 2010. Contiene l’ultimo dato, non statistico ma politico e di opinione, utile a dare una cornice a quei numeri. La lettera contiene un appello ai privati, col presupposto orgogliosamente esibito di aver liberato la cultura, nei due anni di ministero, da “un rapporto di eccessiva dipendenza dallo Stato”. E di seguito, comprende la (consueta ovunque) chiamata della società civile a colmare i vuoti determinati dalla “riduzione di trasferimenti al ministero della cultura imposti dalla crisi economica che ci ha costretto a fare scelte coraggiose (sic!) e ripensare il ruolo dello Stato”. Ma dà anche conto della sostituzione di figure dirigenziali nel settore dei beni culturali: manager provenienti dal settore privato come segno di una svolta e di un successo. Quel che è utile, nel raffronto tra queste due istantanee –  il degrado fotografato dall’inchiesta sul decennio che si chiude col 2011, la trionfalistica dichiarazione di Bondi sulle magnifiche sorti e progressive dell’intervento dei privati (“da domani mi metterò al lavoro per incontrare personalmente i rappresentanti delle maggiori aziende private e pubbliche italiane, allo scopo di chiedere un sostegno”) – è l’immediato riscontro negativo di quelle che sono strategie ultraliberiste del governo nella gestione della cultura, maturate – sempre Bondi lo dichiara – nel corso di due anni. Qualche esito di più lungo periodo di questo tipo di mentalità può essere la fortuna del modello Disneyland per invogliare il pubblico a visitare i luoghi della cultura. Ma, dall’insieme delle situazioni estreme uscite nelle cronache nazionali, vale la pena citare il caso del monumento posto davanti alla Reggia di Caserta, non è chiaro se come scelta per stupire e dunque attrarre o come denuncia per mancato intervento dello Stato nella manutenzione di quel bene. In entrambi i casi, esempio di che cosa non serve. Detto questo, serve tornare alle idee espresse da Salvatore Settis, a commento dell’inchiesta da cui si è partiti. Lungi dall’idea di avocare totalmente al pubblico la gestione e il sostegno dei beni e delle attività culturali, l’autore sostiene la necessità di “capovolgere la perversa tendenza alla carestia perpetua”, senza di che l’indispensabile e auspicabile intervento di privati si riduce al sogno di un miracolo. Insomma, l’Italia della cultura richiede  strategie, scelte pensate e non superficiali luoghi comuni. Lo Stato non può chiudere gli occhi, ignorare il suo ruolo e delegare ai privati scelte strategiche che debbono essere sue, cui essi possono, sì, aderire, ma in un’ottica di definizione di complementarietà. Non è difficile trovare un riscontro di questo stato di cose anche in periferia. Le finanze locali sono da tempo in affanno, musei e biblioteche si arrangiano come possono, spesso con una riduzione ai minimi termini delle reali potenzialità. Quanto ai presidi territoriali dello Stato centrale – esempio tipico gli Archivi di Stato – ne conosciamo le ristrettezze. Contemporaneamente è noto che, se c’è uno sforzo particolare capace di produrre qualcosa di veramente buono, i risultati sono straordinari. Tutte le nuove biblioteche municipali toscane – le grandi di Pistoia e Arezzo, come la piccola di Rosignano Solvay – hanno moltiplicato l’utenza, attratto lettori e visitatori imprevedibilmente numerosi. A riprova di un desiderio di cultura che esiste, senza dubbio. Non c’è contraddizione tra questi e i dati dell’inchiesta governativa – scarsa partecipazione ad attività culturali – ma ci sono tutte le conseguenze della disattenzione delle istituzioni e dei loro silenzi, delle difficoltà che vive il sistema scolastico, del fenomeno di vera e propria mutazione delle forme del sapere. La rete, con le sue risorse in immagini e in notizie velocissime ed essenziali, offre enormi vantaggi, facilita il pensiero olistico, mentre scoraggia quello logico-sequenziale, le “forme di sapere che stiamo perdendo”, per usare un espressione del linguista Raffaele Simone. Il tema che da tempo abbiamo di fronte, quando lavoriamo con classi di scuola dell’obbligo o con studenti e insegnanti di medie superiori, è: come tenere insieme presente e futuro, memoria e storia del passato, modelli comunicativi adeguati ai tempi. Guardare alla scuola mette sul tappeto anche il tema delle relazioni fra culture. Migrazioni e contiguità fra retroterra culturali differenti, ormai divenuta fenomeno diffuso e non più straordinario, impongono di guardare con sempre maggiore attenzione e volontà operativa ai progetti transnazionali, mediterranei, europei, comunque a progetti capaci di contribuire a tenere insieme soggetti e contenuti apparentemente molto diversi, ma che si deve imparare a far convivere proficuamente. Europa e Mediterraneo. La prossima Summer school destinata agli insegnanti che lavorano negli Istituti della nostra rete nazionale tematizza proprio il Mediterraneo. Mentre il prossimo Horizon 2020, Cultural heritage and european identities della Commissione europea ha come presupposto un dato: L’Europa è caratterizzata da una varietà di popoli, tradizioni, identità nazionali e regionali differenti, così come da diversi livelli di sviluppo economico e sociale, [per cui] la Commissione europea ha previsto una serie d’iniziative per lo sviluppo e la valorizzazione del patrimonio culturale e delle dinamiche socio-culturali traverso programmi specifici di ricerca e innovazione. In particolare, la Commissione europea ha scelto di privilegiare, da un lato, la costruzione di un’autentica identità europea, fondata su alcuni degli episodi storici principali del secolo scorso e, dall’altro lato, gli studi sulle più avanzate tecnologie per la tutela dei beni culturali, con l’intento di massimizzare il valore socio-economico del patrimonio tangibile e delle collezioni di biblioteche, musei, gallerie, archivi e altre istituzioni pubbliche. Una grande lezione viene dalla lettura di un libro appena  riedito di Julia Kristeva: Stranieri a noi stessi.   È stato pubblicato uno stralcio della nuova introduzione nell’ultimo Domenicale de “Il Sole24 Ore”. Ci sono passi entusiasmanti. Della cultura europea l’autrice propone di enfatizzare alcuni aspetti: “la nozione d’identità e il multilinguismo; il destino della nazione; l’umanesimo da reinventare”. L’eredità che l’Europa offre al mondo, sostiene ancora la Kristeva, è “una concezione e una pratica dell’identità come di un’inquietudine interrogante”, tale da produrre una “identità plurale” e costituire un”antidoto al male della banalità”. Sono idee che è facile sottoscrivere, almeno a giudicare dalla loro congruenza con i principi ispiratori di Costituzioni, italiana ed europea intanto, più arduo praticare. Negli ultimi decenni sono stati alimentati esasperati individualismi, nazionalismo e razzismo – tutti ismi pericolosi, ma ci sono anche i vincoli delle ristrettezze di risorse, anche umane, in società “vecchie”, che hanno deciso di riempirsi la bocca di giovanilismo, in pratica estromettono dalla cultura le generazioni fresche di pensieri, ricche di modernità e di energie positive. È dentro questa cornice che proponiamo di inserire i nostri “pensieri al futuro”.  Accanto alle petizioni di principio e ai manifesti culturali abbiamo programmi e condizioni per la fattibilità. Mettiamo sul tappeto le nostre risorse:

  • La vocazione alla cura del patrimonio culturale, dei beni culturali
  • L’esperienza sul territorio
  • La proiezione verso progetti e programmi di rete, regionale, nazionale, europea
  • La scelta coerente di trattare la cultura non come passatempo ma come lavoro, privilegiatamente giovanile, e come servizio alla collettività.
  • La sperimentazione di linguaggi moderni
  • La consuetudine con progetti finalizzati alla formazione – istruzione ed educazione.

Due esperienze ci preme ricordare, per il significato che hanno avuto di per sé e per la crescita che hanno prodotto. Il progetto pluriennale sulla storia delle reti europee costruite dagli antifascisti toscani tra anni ’20 del Novecento e secondo dopoguerra: dall’emigrazione politica, alle Brigate internazionali in Spagna, alle Resistenze in Europa,  all’impegno per la costruzione politica delle democrazie europee del dopoguerra. Da questa esperienza di studio, che i nostri giovani ricercatori hanno potuto fare grazie a un finanziamento proveniente dall’estero, è nato un arricchimento di conoscenze straordinario, e uno sguardo nuovo, rivelatore di alcune radici dei limiti della costruzione dell’Europa. L’altra esperienza è quella dello studio e della didattica del Confine orientale. La legge istitutiva della Giornata del ricordo ci ha quasi naturalmente guidati a un approfondimento culturale del vissuto di cittadini europei, italiani e slavi, in una piccola area, Friuli Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, che è stata un laboratorio della storia del Novecento. Ci siamo immersi  nella lettura di alcune pagine di Claudio Magris che raccontano  lo spaesamento e l’esilio delle popolazioni delle zone di frontiera, o di Enzo Bettiza sulla memoria (“Ritrovare il filo della memoria è, per un esule, un’operazione molto più importante che per un individuo nato e cresciuto e rimasto, senza strappi, nel proprio ambiente naturale. Per l’esule, rimasto troppo a lungo nella malsana palude dell’oblio, ricordare è guarire”). Le abbiamo condivise con  insegnanti e studenti, in Toscana e altrove. A questa seconda esperienza ha dato un sostanzioso contributo la Regione Toscana. Il senso di queste esperienze è forte. Siamo stati in entrambi i casi partecipi delle vicende di cui questi nostri studi e lavori parlano, come città, come popolazione e culture locali. Ci hanno toccato all’epoca in cui si sono verificati, nel Novecento. Oggi ha senso che quegli eventi, in parte dolorosi, in parte caratterizzati da fenomeni di accoglienza e dialogo con l’altro, siano i contenuti di progetti di storia e memoria. Se il luogo comune, che ci infastidisce come logoro stereotipo, di Grosseto città aperta al vento e ai forestieri, può essere reinventato e inverato ora, è nel non chiuderci localisticamente, nel trovare il modo per dare una forma concreta in termini di cultura a quella “inquietudine interrogante”, che dalle lezioni del passato ci spinge naturalmente verso la ricerca di un’identità plurale. Gli anniversari di questi anni ci spingono a parlare diffusamente  delle tragedie di due guerre totali e di violenze inaudite che ci siamo lasciati alle spalle, ma anche a sperare di portare a compimento, rinnovandoli come serve, i progetti più ambiziosi non realizzati nel Novecento. Coniugare cura del nostro patrimonio di memorie – le carte, i libri, le memorie narrate – e apertura all’alterità vorremmo che fosse la cifra della sopravvivenza e del consolidamento del nostro lavoro culturale. Chiediamo un impegno alle istituzioni locali: risorse, idee, fiducia nei giovani e meno giovani che hanno i numeri per non sprecare energie spese in percorsi di formazione importanti già realizzati. Così, analogamente, è indispensabile il contributo proveniente dai luoghi della cultura alta, della ricerca, in una relazione biunivoca. Siamo convinti che il patrimonio di beni culturali, conoscenze, produzione editoriale… che finora abbiamo consegnato, anche nella quotidianità del servizio culturale,  non debbano andare dispersi.

Luciana Rocchi

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