Maiano Lavacchio, 22 marzo 1944: 11 giovani renitenti alla leva, sbandati e disertori, datisi alla macchia per non combattere nella guerra fascista al servizio del ricostituito esercito della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), furono rastrellati e fucilati dopo un processo sommario, condotto dalle massime autorità fasciste locali. E’ la storia dei “Martiri d’Istia” –dal nome del paese di provenienza della maggior parte dei giovani-, un esempio di resistenza civile e passiva, di strage prettamente fascista e di “guerra totale”, nell’Italia ancora controllata dal fascismo repubblicano asservito all’occupante tedesco. Mario Becucci (classe 1906), Antonio Brancati (1920), Rino Ciattini (1924), Alfiero Grazi (1925), Silvano Guidoni (1924), Corrado Matteini (1920), Emanuele Matteini (1924), Alcide Mignarri (1924), Alvaro Minucci (1924), Alfonzo Passannanti (1922), Attilio Sforzi (1925), i nomi delle giovani vittime.
Con loro vi era anche un disertore della Wehrmacht, Günter Frichugsdorf, noto come “Gino”. Fu l’unico che riuscì a salvarsi perché nel corso del rastrellamento, forse perché già presagiva le conseguenze per il suo atto di disobbedienza, riuscì a fuggire dalla capanna. Dopo aver preso parte alla guerra di Liberazione nelle file della banda di Monte Bottigli, fu per un periodo assistito come un figlio dalla famiglia Grazi di Cinigiano, ricambiando tanto affetto, da pittore qual era, con la decorazione della cappella dove riposa Alfiero Grazi nel cimitero del paese.
Il più anziano del gruppo era un perseguitato politico, Mario Becucci, decoratore originario di La Spezia, trasferitosi a Grosseto nel 1924. Repubblicano, dopo l’armistizio era sfollato a Cinigiano, dove condusse una fervida attività per convincere i giovani di leva a non rispondere alla chiamata. Denunciato per disfattismo politico e propaganda sovversiva, Becucci riparò a Istia dal cugino, prima di unirsi ai “ragazzi”, così ricordati nella memoria popolare. Tra di loro vi erano anche due soldati sbandati meridionali del Regio Esercito, Alfonso Passannanti e Antonio Brancati.
Di quest’ultimo si conserva la struggente lettera scritta ai genitori prima della fucilazione, un testamento spirituale in cui ribadiva la nobiltà della sua scelta:
“ (…) Vi giuro di non aver commesso nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria. Voi potete dire questo sempre a voce alta dinnanzi a tutti. Se muoio, muoio innocente (…)”.
Vari erano i motivi che spinsero i chiamati alla leva alla renitenza e gli sbandati a non presentarsi: il rifiuto della guerra, la speranza nella prossima liberazione da parte degli Alleati, la paura della deportazione in Germania, l’antifascismo più o meno consapevole a seconda della propria esperienza, la forte influenza della volontà dei familiari d’idealità antifasciste, nonché la volontà di vivere in pace la propria giovinezza.
La strage di Maiano Lavacchio colpisce particolarmente perché i “ragazzi” non erano partigiani combattenti.
Ebbero solo contatti con Angiolo Rossi e Pietro Verdi del Comitato militare, infruttuosi per il passaggio alla lotta armata. Possiamo credere che gli organizzatori partigiani avessero provato a trascinarli dalla loro parte, ma la volontà iniziale dei ragazzi era di starsene nascosti ed in pace, confidando nell’imminente fine della guerra. Più difficile capire che scelte avrebbero preso in prossimità della Liberazione, quando il movimento partigiano si rafforzò notevolmente. I giovani, uniti da vincoli di parentela o amicizia, furono sostanzialmente guidati da una rete di solidarietà e protezione collettiva costituita dalle famiglie rurali della zona. Luogo centrale della vicenda fu Maiano Lavacchio, una frazione collinare del Comune di Magliano in Toscana, all’epoca piuttosto isolata e perfetta per l’ “imboscamento” dei renitenti, che potevano contare sull’ospitalità contadina per il sostentamento e sulle folte macchie per nascondersi.
Il mondo rurale ebbe un ruolo fondamentale non solo per la protezione e l’assistenza fornita ai renitenti, agli sbandati, ai disertori e agli ex-prigionieri alleati, ma anche come “retrovia” del movimento partigiano. Vani furono i tentativi del Capo della Provincia Alceo Ercolani di rompere questo connubio ormai inscindibile; le minacce o le promesse di ricompense per la denuncia dei “ribelli” non sortirono effetti tra le famiglie contadine.
A Maiano Lavacchio la situazione fu piuttosto tranquilla fino al febbraio 1944, quando il decreto di Mussolini -18/2/1944- che prevedeva la pena di morte per i renitenti e i disertori e i bandi fascisti sempre più duri verso le famiglie rurali che prestavano assistenza, convinsero gli 11 giovani a trasferirsi tra gli “scopi” di Monte Bottigli, dove costruirono due capanne.
L’Ispettore federale di sorveglianza al reclutamento Guido Corsi segnalò che su un totale di 2.697 chiamati alle armi in provincia, al 23 marzo 1944, se ne erano presentati solamente 546. Il Capo della Provincia di Grosseto Alceo Ercolani fu particolarmente duro nella repressione del fenomeno della renitenza, adottando provvedimenti drastici fino all’arresto dei familiari dei renitenti. Nel mese di marzo, inoltre, s’intensificarono notevolmente le operazioni di rastrellamento, condotte dalla Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) con metodi sempre più brutali.
L’operazione di Monte Bottigli fu organizzata dal Capo della Provincia Ercolani, in collaborazione col federale Silio Monti ed il vice-questore Liberale Scotti. L’incarico di svolgere indagini sui renitenti della zona fu affidato al catanese Lucio Raciti, un agente di P.S. in stretto rapporto con lo Scotti, che al contempo svolgeva il ruolo di spia al soldo delle autorità fasciste. Raciti s’infiltrava infatti nelle formazioni partigiane per ricavare importanti informazioni ai fini dei rastrellamenti, ricevendone notevoli benefici economici.
La mattina del 19 marzo la sua visita in avanscoperta al podere degli “Ariosti”, nelle false vesti di un reduce di Russia in cerca di ospitalità, ebbe proprio lo scopo di ottenere notizie utili per la spedizione nazi-fascista. Il rastrellamento fu condotto nella notte tra il 21 e il 22 marzo da militi della G.N.R., un nucleo di P. S. e alcuni Carabinieri, un reparto tedesco (Feldgendarmerie) e la squadra d’azione “Ettore Muti”: in totale c.a. 140 uomini. I comandanti erano il cap. Michele De Anna, a capo della “Muti”, il commissario prefettizio di Grosseto Inigo Pucini, il federale Silio Monti, il ten. Vittorio Ciabatti della G.N.R., il commissario di P. S. Sebastiano Scalone ed il s. ten. tedesco Müller.
Dopo aver costretto con la violenza due renitenti sardi ospitati all’ “Ariosti” a fare da guida, la colonna raggiunse le capanne di Monte Bottigli alle sei del mattino.
I giovani, sorpresi nel sonno, non opposero resistenza, furono spogliati dei loro averi, pesantemente picchiati e condotti in due colonne al podere “Appalto” di Maiano Lavacchio, luogo di ritrovo dei paesani con la scuola e altre attrattive. Proprio all’interno della scuola si svolse la farsa del processo, condotto interamente dai fascisti, poiché i tedeschi si erano già dileguati. Ai “ragazzi” non fu concessa nessuna possibilità di difesa. Vani furono anche i tentativi di muovere a pietà i rastrellatori da parte di alcuni parenti, accorsi sul posto dopo la diffusione della notizia.
Dora Matteini, madre di Emanuele e Corrado, fu offesa e violentemente allontanata, senza neanche la possibilità di un ultimo abbraccio ai suoi figli.
L’ultimo saluto “Mamma, Lele e Corrado un bacio”, fu impresso nella lavagna della scuola, oggi conservata nella stanza del sindaco del Comune di Grosseto.
Dopo un’ultima preghiera, i “ragazzi” furono portati davanti al plotone d’esecuzione, comandato da Inigo Pucini. I corpi straziati furono lasciati sul posto, mentre le colonna fascista ripartì solo dopo aver razziato tutti i poderi della zona ed essersi macchiata di altre violenze. La sepoltura fu possibile solamente per l’interessamento e il coraggio del parroco di Istia, Don Mugnaini.
Quattro giorni dopo Ercolani espresse tutto il suo compiacimento per l’azione svolta, proponendo ricompense per gli esecutori.
Le prime indagini sulla strage di Maiano Lavacchio furono compiute dal C.P.L.N. nel giugno 1944.
Due anni dopo la Sezione speciale di Corte d’assise avviò il “processone” ai fascisti repubblicani della provincia. L’accusa più grave mossa agli imputati fu quella di collaborazionismo col tedesco invasore, mediante i rastrellamenti e le rappresaglie. Per il rastrellamento di Monte Bottigli la Corte smontò la tesi difensiva degli imputati che sostenevano l’esclusiva responsabilità tedesca e trattò il caso come forma sia di collaborazionismo politico sia militare, perché “l’azione aveva la finalità di assicurare mediante il terrore di sanguinose repressioni un maggiore afflusso di militari a quell’esercito repubblicano voluto dai tedeschi a sostegno della loro azione contro gli alleati e l’esercito del governo legale”.
Il 18 dicembre 1946 fu emessa la sentenza: la Sezione speciale della Corte d’assise di Grosseto comminò otto condanne a morte, mai applicate, due a 30 anni di reclusione e 12 a pene minori (di cui sei interamente condonate), di fronte a ben 37 assoluzioni. Successivamente, gran parte delle pene furono derubricate, condonate o amnistiate, anche alla luce del D.P. 22 giugno 1946 (meglio noto come “Amnistia Togliatti”) che, per le esigenze di pacificazione del Paese, portò all’archiviazione di molti processi e alla liberazione di migliaia di fascisti. La sete di giustizia dei familiari delle vittime di Maiano Lavacchio non fu mai placata.
La storia dei martiri d’Istia rientra a pieno titolo tra gli episodi di Resistenza civile, passiva e senz’armi, degni di esser ricordati come atti di disobbedienza che contribuirono a minare il prestigio, la coesione e il controllo del territorio da parte del fascismo repubblicano. La strage fascista di Maiano Lavacchio, organizzata dalle massime autorità locali per colpire semplici imboscati e non partigiani combattenti, non è imputabile ad un errore nella catena di comando o ad un casuale ricorso eccessivo alla violenza. Siamo in piena guerra civile e questo non è altro che un episodio della “guerra totale”, tesa ad ottenere il pieno controllo del territorio con la logica del terrore preventivo, volto a reprimere ogni forma di dissenso alla R.S.I. ed a rompere il vincolo di solidarietà creatosi tra la popolazione rurale e i “ribelli” di ogni tipo. Il terrore doveva generare un clima di paura e sospetto, in grado di prevenire ogni forma di disobbedienza, ma in realtà sortì effetti opposti a quelli sperati dai fascisti.
Questa vicenda rappresentò una sorta di spartiacque nella storia della Resistenza maremmana, perché suscitò una vasta indignazione popolare e una maggior consapevolezza nei giovani. Dopo la strage e in concomitanza con la più dura repressione scatenata dai fascisti a partire dalla primavera del ’44, le fonti concordano nel rilevare il sempre maggior insuccesso delle continue chiamate alla leva e il rafforzamento numerico delle bande partigiane. L’eccezionalità di questo episodio è confermata anche dal dibattito che si tenne all’assemblea del fascio repubblicano di Grosseto del 26 aprile 1944, quando alcuni tesserati rilevarono il grave errore politico compiuto a Maiano Lavacchio, criticando apertamente l’operato delle più alte cariche del partito locale.
Per tali rimostranze il fascista Vezio Vecchi fu tenuto in stato di arresto per 20 giorni. L’uccisione di giovani vite innocenti nocque al fascismo repubblicano grossetano, che perse consenso e credibilità tra la popolazione, smarrita di fronte a tanta crudeltà.
Nella storia di questa e strage e del suo vissuto popolare, inoltre, non ci troviamo di fronte a quella “memoria divisa” che ha riguardato molte comunità contadine coinvolte negli eccidi connessi alla “ritirata aggressiva tedesca” dell’estate ‘44.
Per quelle stragi compiute dai tedeschi, che in realtà rispondevano all’esigenza di pulizia del territorio nella strategia premeditata del terrore, nella memoria popolare e non solo le responsabilità furono spesse attribuite ai partigiani e alle loro “provocazioni”. Nel nostro caso siamo invece nel marzo 1944 e le colpe ricadono interamente sulle autorità fasciste repubblicane, quindi italiane, invitandoci a rileggere criticamente quello stereotipo dell’“italiano brava gente”, combattuto dal lavoro di noti storici quali Angelo Del Boca e David Bidussa.
(Marco Grilli)