Una località sulle colline del Carso racchiude le violenze dei nazionalismi del ‘900 e testimonia il peso delle memorie divise. Se Basovizza richiama alla mente degli italiani il famigerato “pozzo della miniera”, monumento nazionale dal 1992 e luogo simbolo delle foibe giuliane, nell’ex-poligono di tiro militare vicino all’Osservatorio astronomico si trova un altro monumento, nei pressi del quale, ogni anno, le autorità slovene celebrano i loro eroi. Si tratta di quattro giovani irredentisti tra i 22 e i 34 anni, Zvonimir Miloš, Fran Marušič, Ferdo Bidovec e Aloyz Valenčič, fucilati il 6 settembre 1930 in esecuzione della condanna a morte sancita dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che punì col massimo della pena la loro attività antifascista, considerata “attentato contro lo Stato”. Per capire questo episodio è necessaria una contestualizzazione che ci riporti alla politica di snazionalizzazione operata dal regime fascista nella Venezia Giulia nei confronti della minoranza slovena e croata, rappresentata all’epoca da circa mezzo milione di persone. Se prima del 1922 l’antislavismo fu un formidabile strumento di propaganda per il “fascismo di confine”, dopo la presa del potere la “guerra agli slavi” divenne la premessa per l’espansionismo verso i Balcani. L’italianizzazione forzata degli “allogeni”, già avviata nel primo dopoguerra dai governi liberali influenzati dal nazionalismo, durante gli anni del regime fascista non realizzò tanto l’agognata assimilazione delle minoranze, quanto un loro diffuso ribellismo allo Stato italiano. Già nel 1923, ai tempi del primo governo Mussolini, furono adottati provvedimenti restrittivi verso gli “allogeni”, come la riforma scolastica di Gentile, che vietò l’insegnamento di lingue diverse dall’italiano nella scuola pubblica, e la creazione dell’Ispettorato speciale del Carso, volto al controllo militare delle campagne slovene. L’intensificazione della politica di snazionalizzazione si realizzò poi con l’instaurazione della dittatura vera e propria, a partire dal 1925. In quell’anno fu proibito l’uso di lingue che non fossero l’italiano nelle sedi giudiziarie, premessa al loro divieto in tutto il campo amministrativo e nei locali pubblici. Breve era il passo dalla restrizione all’intimidazione squadrista. Fu poi la volta della toponomastica, con l’italianizzazione di tutti i nomi delle località, delle insegne pubbliche e della cartellonistica stradale. Non si salvarono neppure i cognomi, italianizzati col regio decreto del 7 aprile 1927. La snazionalizzazione non si fermò però solo alla lingua. Nel giugno 1927 quasi tutte le 400 organizzazioni culturali, ricreative ed economiche slovene e croate furono soppresse ed i loro beni confiscati: all’inizio degli anni ’30 non rimase traccia di quei luoghi di aggregazione delle minoranze, simbolo dell’identità nazionale. Nelle scuole, la proibizione dell’uso del croato e dello sloveno, l’allontanamento più o meno forzato dei docenti non italiani e la chiusura di tutti gli istituti didattici slavi, andarono di pari passo con l’esaltazione del nazionalismo italiano e la diffusione della propaganda del regime. La discriminazione non risparmiò neppure il clero croato e sloveno, già soggetto all’intimidazione e alla violenza squadrista prima del 1922. I preti “allogeni” finirono nel mirino del regime perché considerati anti-italiani e “agenti sobillatori”. Ecco quindi la “romanizzazione delle funzioni del culto” e il tentativo di vietare l’uso della madrelingua nelle funzioni religiose. «I maestri slavi, i preti slavi, i circoli di cultura slavi sono tali anacronismi e controsensi in una regione annessa da ben nove anni e dove non esiste una classe intellettuale slava, da indurre a porre un freno immediato alla nostra longanimità e tolleranza», scriveva nel 1927 “Il Popolo di Trieste”, l’organo della federazione fascista giuliana. Durissime furono anche le conseguenze economiche della politica di snazionalizzazione del regime. Tra il 1928 e il 1930 furono sciolte le leghe delle cooperative di Gorizia e Trieste, così che i contadini slavi, privati del sostegno delle Casse rurali e delle cooperative di acquisto e vendita, s’indebitarono sempre di più e furono costretti a vendere le loro proprietà. Per meglio realizzare la “bonifica etnica” fu costituito nell’agosto 1931 l’ “Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie”, un organo che rilevava le terre messe all’asta per assegnarle ai coloni italiani delle vicine zone agricole. Gli antichi possidenti slavi che decisero di non emigrare finirono così per diventare coloni al servizio dei nuovi proprietari italiani. Tutta questa serie di provvedimenti, volti all’ italianizzazione forzata ed alla perdita della stessa coscienza dell’identità nazionale nelle minoranze slave, sono stati interpretati da uno dei maggiori storici giuliani del ‘900, Elio Apih, come tentato “genocidio culturale”. La repressione del regime comportò la decisa opposizione dell’ élite culturale e di molti giovani slavi. Non bisogna dimenticare che la componente più forte e radicata dell’antifascismo della Venezia Giulia fu costituita proprio dagli irredentisti sloveni e croati. Contro costoro sarà particolarmente intensa, per tutto il Ventennio, l’opera di controllo sociale e repressione poliziesca del regime, che poteva valersi di una rete diffusa di confidenti e delatori. Un’analisi della composizione sociale, degli ideali e dei metodi dell’opposizione slava al regime nella Venezia Giulia è stata fornita dalla storica Anna Maria Vinci: «Si tratta di giovani (studenti, intellettuali ma anche operai e contadini) che per primi vengono allo scoperto, usando in molti casi l’arma dell’azione terroristica. Sono giovani che spesso intrecciano la causa del riscatto sociale alla rabbia del riscatto nazionale. Da una parte, irredentisti e nazionalisti, a volte sfiorati dagli ideali propri del socialismo; dall’altra, comunisti, sostenitori di ampie rivendicazioni a favore del popolo sloveno e croato. Essi sono portatori di un magma di idee che li rende figure nuove ed esemplari all’interno dell’universo frantumato dell’antifascismo giuliano, dove alle divisioni consolidate, proprie di tutte l’antifascismo italiano, si aggiungono quelle riconducibili al nodo irrisolto della questione nazionale». Alla fine degli anni ’20, dall’ala nazional-liberale dell’irredentismo slavo si formò un’organizzazione clandestina, il TIGR (dalle iniziali delle città e dei territori rivendicati, ossia Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka), che s’ispirava all’ IRA irlandese (Irish Republican Army). Gli attivisti del TIGR si dedicavano alla propaganda antifascista, all’organizzazione di corsi di lingua slovena e croata, alla diffusione di stampa clandestina, alle azioni di spionaggio e sabotaggio condotte in collaborazione con gli irredentisti jugoslavi ed i membri italiani della Concentrazione antifascista, fino a giungere all’azione terroristica vera e propria, con l’organizzazione di attentati ai danni delle caserme, degli asili e delle scuole italiane, dei collaborazionisti slavi e delle sedi e dei simboli dell’oppressione fascista. Nonostante la limitatezza delle azioni armate del TIGR, tra gli atti più eclatanti compiuti dai suoi militanti si ricordano: l’azione armata contro gli elettori croati condotti a votare per il Plebiscito del 1929, che causò una vittima e provocò la condanna a morte del croato Vladimir Gortan, in quella che fu la prima trasferta del Tribunale speciale al confine orientale; alcuni attentati incendiari contro le scuole di Sgonico, Cattinara e Prosecco; l’atto dimostrativo contro il Faro della Vittoria a Trieste nel 1930 e, il 10 febbraio dello stesso anno, l’attentato compiuto dal ramo triestino del TIGR, la “Borba” (“Lotta”) alla sede de “Il Popolo di Trieste”, l’organo del Pnf locale che sosteneva con veemenza la necessità della snazionalizzazione. In quest’ultimo caso, la bomba posta dagli irredentisti provocò una vittima –il redattore Guido Neri- e tre feriti; sul luogo dell’attacco fu anche lasciata una copia di “Giustizia e Libertà” del novembre 1929, che riportava uno scritto di Mussolini quando era ancora socialista: «Convengo senza discussione che le bombe non possono costituire, in tempi normali, un mezzo d’azione socialista. Ma quando un governo, sia repubblicano, sia monarchico, vi perseguita o vi getta fuori dalla legge e dall’umanità, oh!, allora non bisognerebbe maledire la violenza, anche se fa vittime innocenti». Le indagini delle autorità fasciste per la ricerca dei colpevoli si appuntarono sulla cellula triestina del TIGR, rilevando l’ormai notevole estensione dell’intera organizzazione, non solo a Trieste ma anche nel Goriziano e nel Carso. L’istruttoria dei processi celebrati contro l’organizzazione irredentista rilevò circa un centinaio di azioni violente compiute dai suoi militanti nel territorio della Venezia Giulia. Generalmente, si trattava di azioni dimostrative volte a impedire la diffusione di sentimenti filo-fascisti ed a sollevare il malcontento verso la dittatura tra le minoranze. Nel settembre ’30 il Tribunale speciale si trasferì nuovamente a Trieste, per l’occasione blindata e pullulante di cronisti italiani e stranieri. Obiettivo: giudicare in un maxiprocesso i responsabili degli ultimi attentati per stroncare definitivamente il movimento ribellistico nel triestino. Dopo un breve dibattimento, alle ore 5:44 del 6 settembre 1930 Miloš, Marušič, Bidovec e Valenčič, ritenuti i principali colpevoli delle attività della “Borba”, furono portati al poligono di tiro di Basovizza e qui fucilati alle spalle da un plotone di esecuzione della 58.a Legione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). Il Tribunale speciale emise anche altre cinque condanne ad oltre 15 anni di reclusione. La dura repressione scompaginò le file della “Borba” ma non valse a frenare il ribellismo, tanto che nel dicembre 1941 il Tribunale speciale trasmigrò nuovamente a Trieste per emettere nove condanne a morte, 23 a trent’anni di carcere ed altre pene minori per un totale di ben 666 anni di reclusione ai danni degli attivisti del TIGR. Dopo la liberazione dal nazi-fascismo, il 9 settembre 1945 fu inaugurato un monumento in memoria dei quattro “eroi di Basovizza”: da allora ogni domenica successiva al 6 settembre si tiene una commemorazione ufficiale, ancora oggi fonte di polemiche e divisioni. Nella cerimonia del 12 settembre 2010, lo storico Raoul Pupo, sostenitore della necessità di raggiungere una condivisione sul terreno dei giudizi storici frutto di analisi critica, ha delineato i tre passi necessari per la riconciliazione, al di là dell’obiettivo irraggiungibile della memoria condivisa: «Il primo passo è quello del riconoscimento della memoria altrui, che in alcuni casi può diventare autentica scoperta -in genere da parte degli italiani nei confronti di sloveni e croati- di un patrimonio umano e civile largamente sottovalutato. Il secondo passo è quello del rispetto delle memorie sofferenti, che non interferisce con le valutazioni storiche e politiche. Il terzo è quello della purificazione della memoria, termine che non ha un particolare significato religioso, perché vuol dire semplicemente la disponibilità a considerare anche i lati oscuri della propria memoria con la quale pure si rimane solidali».
(Marco Grilli)